Chiunque nasca al Sud ha un po’ di cucina nel sangue. Lì il cibo è al centro di ogni cosa in ogni momento della giornata: nei mercati, in strada, e chiaramente in casa dove c’è tutto un racconto, una letteratura, una liturgia su come viene preparato. Questo è il pensiero di Gennaro Esposito, chef stellato, uno fra i protagonisti della rinascita gastronomica della Campania.

La prima stella Michelin la riceve nel 2001, la seconda nel 2008. Dal 2003 il riconoscimento delle tre forchette del Gambero Rosso e nel 2006 la valutazione dell’Espresso quale miglior ristorante campano. Nel 2011 il congresso gastronomico Identità Golose lo nomina “Migliore Chef Italiano dell’Anno” e la guida del “Gambero Rosso” lo inserisce tra i primi tre chef Italiani.

L’abbiamo visto in alcuni programmi televisivi come conduttore e parte del cast o ospite in trasmissioni quali Junior MasterChef, La Prova del Cuoco e Masterchef Italia, e poi TV8.

 Chi ti ha trasmesso la passione per la cucina?

Al sud s’impara facilmente, soprattutto se come me hai una madre bracciante agricola che ti trasmette una profonda conoscenza dei prodotti della terra e un padre che allevava polli e conigli per passione.

Ho avuto, poi, la fortuna di uno zio pasticciere che mi ha trasmesso la manualità. A 9 anni, un po’ per gioco e un po’ per lavoro, sono finito nella sua pasticceria, lì mi sentivo a casa…. E avevo già un’indipendenza economica.

E dopo l’esperienza in pasticceria?

Più in là intraprendo gli studi gastronomici, iscrivendomi all’istituto alberghiero della mia città. Mi diplomo nel 1988, insieme all’amico e compagno di scuola Antonino Cannavacciuolo.
Poi ho lavorato in posti molto semplici e ho cominciato a comprare i libri di tecnica della cucina per conoscere meglio la cucina “classica”.

Sono cresciuto nella cucina degli anni ’70, pomposa e sempre meno italiana: quella delle farfalle al salmone, del risotto allo champagne, del cocktail di gamberi. In quella cucina, le nostre meravigliose materie prime non avevano il ruolo che meritavano.

Decido poi di lasciare la Campania e faccio un lungo giro partendo dal nord Italia, salendo fino in Francia.

Lo studio inizia a essere affiancato alla pratica. Grazie al mio primo stage entro in contatto con il “maestro”, Gianfranco Vissani. Il suo è stato il primo grande ristorante dove ho messo piede dal punto di vista lavorativo.

Nel 2001, poi, lavoro con il grande chef Alain Ducasse, grazie al quale mi perfeziono anche all’estero, a Parigi (al Plaza a Athénée). In seguito, il passo verso le grandi cucine del Le Louis XV a Montecarlo è breve. Imparo così la disciplina, l’arte del mestiere, la cura maniacale per ogni dettaglio. Avevo una gran voglia di fare, per cui torno al Sud e nel ’91 apro La Torre del Saracino con cui conquisto due stelle Michelin, una nel 2001 e l’altra nel 2008.

Hai dichiarato: “Mangerete la mia storia”. Quali piatti identificano la tua storia?

Un po’ tutti, non propongo piatti che non mi appartengono. La mia storia è quella di un uomo che ama il mare, i sapori forti e di carattere: l’odore della crosta di pane, le alghe o i frutti di mare con peperoncino e prezzemolo. Voglio regalare al mondo le linee guida della cucina mediterranea. Una cucina che ti riscalda il cuore e l’anima, ma anche una cucina di contrasti, una cucina che non dimentichi più, che non cerca il sapore utilizzando elementi esotici, ma lo trae dai nostri prodotti. Una cucina che colpisce il cuore senza nessun trucco e nessun inganno.

Oggi ciò che muove il mio cuore è la cucina della mia famiglia, della mia infanzia, dei miei luoghi, arricchita dalle varie esperienze fatte in giro, dai numerosi congressi di gastronomia cui ho partecipato anche come relatore.

Quando crei nuovi piatti, qual è la tua fonte di ispirazione?

Un piatto dice chi sei. Le esperienze di lavoro, ma anche il tuo carattere e ciò che vuoi regalare agli altri come emozione. Spesso un piatto nasce da un ingrediente, da un ricordo. Per esempio, tempo fa ho scoperto un cipollotto che ho trovato talmente elegante, dolce e di carattere da trarne ispirazione per un risotto con la cipolla ramata. Ho pensato che questa cipolla potesse sostituire il brodo e desse cremosità, e ho poi contrastato la dolcezza giocando con limone, peperoncino e sugarello bianco affumicato.

È nato così un piatto divertente che mette insieme elementi semplici e quotidiani.

Cosa comunicano i piatti di Gennaro Esposito?

Con i miei piatti voglio raccontare la mia terra. Cerco sempre di dare importanza a prodotti che sono poco conosciuti, perché penso siano questi a dare un’identità forte alla tua cucina: il pomodorino del Vesuvio, il limone “femminiello sorrentino”, ad esempio. Oppure utilizzo elementi semplici come cipolle, patate, fagioli e li combino col pesce (io amo la cucina col pesce!) per creare una sorta di gioco e per incuriosire il cliente che è sempre più esigente.

Come descriveresti il tuo stile tra i fornelli?

In cucina è importante creare un’ambiente piacevole, leale e di valori. Bisogna arrivare motivati, concentrati e bisogna divertirsi.

Ci trascorriamo parecchio tempo, chi lavora con me passa più tempo in cucina che con mogli e fidanzate.

 Se volessimo dare 3 aggettivi allo stile dei tuoi piatti?

Devono avere immediatezza, ma devono anche essere persistenti nella memoria e poi devono far sorridere. Quindi direi: immediati, persistenti, sorridenti.

A quali alimenti non puoi rinunciare?

Non potrei vivere senza la freschezza del limone, senza un buon olio d’oliva, il pomodoro, la pasta, la borragine, l’origano fresco selvatico appena raccolto.

C’è un ritorno al mangiare sano?

A casa puoi scegliere cosa comprare, al ristorante sei “costretto a subire”, ma si possono fare anche scelte più sostenibili, scegliere il biologico o tutelare alcune esigenze come il vegano, il vegetariano.

In Italia 374 ristoranti stellati, di cui 11 tre stelle, 35 due stelle e 328 con una stella. La Lombardia è la regione più stellata, con 6 novità: 62 ristoranti (3*** 5** 54*). Il Piemonte, con 4 novità, è sempre in seconda posizione, con 46 ristoranti (1*** 4** 41*), mentre la Campania, con 6 novità, si colloca al terzo posto del podio, con 44 ristoranti, (6** 38*). A seguire, la Toscana, con 6 novità, per un totale di 40 ristoranti (1*** 4** 35*) e, infine, il Veneto, a quota 37, con due novità (1*** 4** 32*). C’è vitalità e la forza scorre impetuosa tra i fornelli nostrani. Ci sono cose da correggere? Quali secondo te?

La guida Michelin fa un’analisi positiva e intellettualmente onesta… Penso che oggi in cucina ci siano molti cialtroni, molti improvvisati perché il numero dei ristoranti è aumentato a dismisura, ma sostanzialmente i posti in cui si mangia bene sono sempre gli stessi. Raramente vengono fuori delle novità interessanti, coerenti ed eticamente corrette. Nel segmento medio basso trovo ci sia tanto da fare, soprattutto sul versante della tradizione. La maggioranza sceglie la strada della creatività, dell’innovazione e pochi si vogliono confrontare con la nostra meravigliosa tradizione, che è il nostro distintivo ed è una scienza esatta perché già collaudata. Gli chef delle nuove generazioni devono studiare e prendere più in considerazione le nostre radici, fonti di bagaglio tecnico e culturale. Le stiamo sciupando. I menu wasabi, o salsa da chissà dove, mi fanno arrabbiare moltissimo perché significa che si continua a non capire niente… Ho assaggiato una mortadella fatta col minestrone, non la conoscevo e mi sento colpevole ogni volta che non conosco un prodotto. L’Italia è piena di prodotti e sono quelli che si devono utilizzare.

Quali sono gli immancabili attrezzi del mestiere?

Ho dei legami affettivi con molti degli utensili che utilizzo in cucina. Il tagliere, il coltello, una pentola che magari mi ricordano il momento in cui li ho comprati o dove. Ci sono tante storie legate agli oggetti. L’evoluzione della cucina deve parecchio anche all’evoluzione di questi utensili. C’è un ritorno al rame, non solo dal punto di vista romantico ma proprio funzionale, per alcune cotture più dolci, più lente e tradizionali. Abbiamo poi le pentole in ghisa, in ferro. Oppure quelle con varie stratificazioni: rame, acciaio, argento, che sembrano solo in acciaio e consentono cotture molto delicate, pensiamo ad esempio allo zabaione o al risotto.

Siamo nell’epoca dello “chefstar”?

In qualche modo ci siamo, ma forse ne stiamo uscendo. Spero rimanga del buono in questo tipo di cucina. Bisogna capire se la gente vuole chef che facciano spettacolo in tv sbattendo piatti per terra e mostrando frigoriferi sporchi, o preferisce che ci si soffermi a illustrare i diversi cibi; qualcosa di forse più noioso ma di certo più serio e più interessante.  

Dal 13 novembre 2017, su TV8 (tasto 8 del telecomando) Cuochi d’Italia, la sfida culinaria dell’autunno condotta da Alessandro Borghese. I giudici? Gli chef stellati Gennaro Esposito (La Torre del Saracino) e Cristiano Tomei (L’ Imbuto). Che giudice sei?

È una postazione inedita per me, il mio lavoro non è quello di giudicare, sono un giudice che vuole imparare. È questo il mio approccio. Ascolto storie meravigliose su ricette, prodotti, aneddoti.

In trasmissione vedo errori imperdonabili, perfino la dimenticanza del sale, ma anche cuochi meravigliosi e piatti che lasciano senza fiato. Imparo tantissimo anche da loro, apprendo pure ciò che non devo fare. Assaggiare, condividere i pensieri con Tomei crea un dibattito e un confronto che aiuta tutti a crescere. Penso che sia un’opportunità anche per chi guarda da casa perché al di là dello show, che c’è perché deve esserci, ci sono una serie di spunti che aiutano a migliorare, utili anche per progettare la spesa del giorno dopo.

Cosa non deve mancare al Miglior Cuoco Regionale d’Italia?

La conoscenza delle proprie radici: tradizione, prodotti e storia.

L’umiltà e i sapori nei suoi piatti.

Nel 2016 con Borghese anche l’esperienza di Junior Master Chef. Ho chiesto ai miei nipotini di porti delle domande, la prima è: Perché ti piace cucinare?

Perché è un mestiere che ti da’ la possibilità di essere creativo e libero. È un mestiere che ti consente di guardarti allo specchio senza guardarti allo specchio: ti fa capire chi sei. La cucina mi ha dato tutto quello che ho: la dignità di un lavoro, un ruolo e, perché no? Un pizzico di celebrità. Mi ha dato un obiettivo e la possibilità di realizzare tanti sogni.

Cucini da quando eri bambino?

A 9 anni sono finito nella pasticceria di mio zio, lì mi sentivo un po’ a casa…un po’ per gioco e un po’ per lavoro. Avevo già un’indipendenza economica. Ogni giorno succedeva qualcosa, non ci si annoiava mai, e poi i profumi i sapori! È stata un’esperienza importante.

Qual è il tuo piatto preferito?

Io amo il cibo e mi circondo di persone che lo amano. Fortunatamente ho una moglie e dei bambini meravigliosi e pure loro lo amano. Il cibo, anche nelle case, va trattato con la sacralità che merita. Mi piacerebbe rivedere nelle scuole la figura della cuoca. Ricordo che quando andavo a scuola c’era una meravigliosa cuocona che cucinava per i bambini: pasta e lenticchie, pasta e ceci o pasta col pomodoro… Ricordo anche che cucinava il pesce, ma era orribile… Ma soprattutto ricordo i profumi che inondavano le classi. Quando era ora ci si lavava le mani e si andava alla mensa. Oggi giro per le scuole per lavoro e per curiosità, vedo i bambini che mangiano negli stessi banchi in cui giocano, cibi preparati anche a centinaia di km che arrivano, a volte, in condizioni davvero discutibili, con profumi improbabili, pietanze servite nei piatti di plastica e posate di plastica. Questo in Italia, al sud! La trovo una cosa imperdonabile che incide sul benessere dei bambini. E a casa, poi, forse mangeranno sul divano e/o davanti alla play station. No, non va bene…

I tuoi figli cucinano?

Ho 2 figli. Emanuele e Isabella. Emanuele a 4 anni iniziava a mescolare gli ingredienti per la torta di mele…

Assaggi mentre cucini?

Sì, poco, ma assaggio.

Preferisci cucinare dolce o salato?

Salato.

Cucini anche a casa?

Cerco di non farlo. Mia moglie cucina benissimo, faccio l’ospite che è meglio!

 

Clementina Speranza

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