A nord di Verona si trova un territorio collinare che confina a ovest con il Lago di Garda, mentre a est e a nord è protetto dai Monti Lessini: la Valpolicella. Questa zona è costellata di pregiati vitigni, splendide ville venete, suggestivi borghi medievali e con una ricca tradizione enogastronomica famosa in tutto il mondo.
Proprio nel cuore della provincia scaligera nasce un progetto architettonico ambizioso che incarna in ogni suo elemento compositivo la relazione simbiotica tra la storica cantina Masi “Monteleone21” e il territorio nella quale è immersa. La nuova struttura di circa 6000 mq nel Comune di Sant’Ambrogio di Valpolicella, attualmente ancora in fase di completamento realizzata dello Studio Architetti Mar di Venezia, permette di ampliare la cantina esistente con nuovi spazi funzionali all’attività direzionale e produttiva con un particolare accentosull’antico processo di appassimento delle uve.
Luogo centrale del progetto è il fruttaio per l’appassimento delle uve con le sue dimensioni monumentali. In questa ala sono presenti colonne di “arele” (termine dialettale che indica i tipici graticci di legno e bambù, un tempo utilizzati per l’allevamento di bachi da seta e ora impiegati per l’appassimento delle uve) alte 12 metri che consentono all’uva di appassire grazie alla ventilazione naturale, e al visitatore di cogliere il valore e l’importanza dell’antico processo di appassimento alla base dei vini del territorio.
“È stato emozionante vedere per la prima volta prendere vita questo spazio – racconta Giovanna Mar, titolare dello studio di architettura –. Il progetto architettonico che abbiamo sviluppato prevede proprio che la cantina possa interpretare al meglio la propria vocazione di fulcro culturale del territorio. L’elemento più caratteristico dell’intero progetto è infatti una grande piazza coperta, intesa come luogo di incontro in prossimità del cuore della produzione dei vini più rinomati e preziosi della Valpolicella: il ‘fruttaio’. L’agorà è caratterizzata da un cassettonato in calcestruzzo che reinterpreta le suggestioni delle grandi architetture e opere di ingegneria italiane degli anni ’50 e ‘60 dove autori come Nervi facevano coincidere, nel linguaggio dell’architettura, la struttura con la forma”.
Anche in questo caso struttura e forma coincidono, permettendo allo spazio della piazza circolare di diventare il luogo di collegamento con il piano superiore, uno spazio aperto a contatto con le viti che permette di ammirare il paesaggio della Valpolicella e le sue marogne (i muretti a secco costruiti per consentire la coltivazione della vite sui declivi delle colline).
L’idea alla base del progetto è proprio la lettura dei segni del paesaggio: l’andamento delle marogne viene ripreso dai vari piani del fabbricato e l’irregolarità delle curve naturali del terreno si può percepire attraverso l’articolazione e la convergenza dei singoli corpi che compongo la struttura. Un altro componente rilevante del territorio, oltre alle marogne, è rappresentato dalle vigne e i loro filari. Le viti costituiscono un elemento generatore per la facciata dell’edificio. Il piano terra è un robusto basamento in pietra. Il piano primo, scandito dal susseguirsi dei serramenti, rimanda al fusto e ai sostegni delle viti, mentre l’alternarsi delle schermature orizzontali al piano secondo ricorda i tralci e le foglie con le loro luci e ombre. Si ricrea così lo stesso gioco di pieni e vuoti, luci filtrate e ombre che si trovano nei vigneti. Il tutto si appoggia a un basamento in pietra che fornisce una base stabile e duratura all’impianto. “L’architettura contemporanea non può prescindere dall’interazione con l’ambiente e dal rispondere in modo strutturale a una forte domanda di sostenibilità e integrazione con il paesaggio – spiega Giovanna Mar –. Il progetto della cantina Masi è emblematico di una ricerca di profonda coerenza tra forma e sostanza, vuole essere il luogo in cui si esprime al massimo il ruolo centrale di questa cantina storica nel panorama enologico del Veneto”.
Per rispettare il territorio sono stati scelti i materiali in base alla loro compatibilità ambientale, al ciclo produttivo fino al loro smaltimento. Cemento armato nelle zone più a rischio di incendio, acciaio nelle strutture verticali di sostegno degli orizzontamenti e pietra dove la durabilità della materia permette il contatto con l’ambiente esterno sono così i tre materiali utilizzati per la costruzione della cantina.
All’interno della nuova cantina si è anche svolto l’evento celebrativo della 250esima vendemmia della storica cantina veronese. La ricorrenza è stata l’occasione per la consegna del 41° Premio Masi che sin dalle origini valorizza e porta nel mondo il rinnovarsi delle eccellenze delle Venezie. A ottenere la massima onorificenza del Premio Masi sono state: la Procuratoria della Basilica di San Marco a Venezia, premiata per il contributo alla preservazione dei valori della Civiltà Veneta, e il “Great Wine Capitals Global Network” (rete delle Grandi Capitali del Vino Mondiali per l’attuale contributo alla ‘Civiltà del Vino’).
Simone Lucci
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, gli architetti sono diventati designer e il design italiano si è diffuso a livello globale. Considerato uno dei principali designer della sua generazione nel panorama milanese e mondiale, Sergio Asti rientra sicuramente in questa cerchia.
Asti nasce a Milano nel 1926, dopo la laurea in architettura al Politecnico di Milano si forma alla professione di architetto. Oltre a progettare numerosi edifici e interni per clienti privati e aziendali, Asti è molto attivo nell’ambito dell’Industrial Design, infatti, è stato tra i primi ad affrontare questa nuova disciplina, fondando nel 1956 l’ADI (Associazione per il Design Industriale) di cui è anche stato Socio Onorario.
L’architetto ha collaborato con importanti aziende del settore come Boffi, Olivari, Cassina, Knoll, Poltronova, Zanotta, Gabbianelli, Salviati, Venini, Arteluce, Artemide, Fontana Arte, Martinelli Luce. Proprio con l’amico Elio Martinelli, Sergio Asti inizia una collaborazione negli anni Sessanta e crea lampade icone del design italiano. Profiterolle (realizzata in metacrilato e fibra di vetro per donarle un effetto spumoso) e Visiere sono due apparecchi ideati nel 1968 e che donano fascino agli ambienti anche quando non sono illuminati.
La lampada Visiere, in particolare, nasce dalla profonda conoscenza e passione del designer per il Giappone ed evoca gli antichi elmi dei samurai. Le tre semisfere che la compongono sono sovrapposte per diffondere una luce morbida e soffusa che si spande con toni diversi e suggestivi negli spazi illuminati.
Nella sua amata Milano, Asti ha realizzato diversi edifici residenziali come La Tizianella (1961) dove per gli interni ha appositamente progettato l’omonima maniglia prodotta da Olivari. Sempre a Milano è stato autore di negozi, showroom, uffici e ristoranti, e si è occupato di allestimenti per La Rinascente, la Fiera e la Triennale. Ha progettato anche ville in Brianza, sui Piani d’Ivrea e in Liguria.
Ha dato vita anche a complementi d’arredo in ceramica (i vasi della collezione Toky di Superego Edition del 1980) e in cristallo (il set di bicchieri Mapan in collaborazione con la cristalleria Arnolfo di Cambio).
La sua raffinata ricerca formale e il sapiente uso dei materiali hanno contribuito alla vincita del premio Compasso d’Oro nel 1962 con il vaso portafiori della serie Macro per Salviati & C., e alla consegna di una medaglia d’oro e una d’argento alla XI Triennale. I suoi lavori di design sono stati esposti in diversi importanti musei tra cui il London Design Museum (1989), il MoMA di New York (2005), il Philadelphia Museum (2008).
L’opera e l’eredità culturale di Sergio Asti, scomparso nel luglio 2021, è il tema della giornata di studi che si terrà all’ADI Design Museum il prossimo 11 maggio. Grazie ai contributi di numerosi studiosi e alle testimonianze delle aziende con cui Asti ha collaborato si intende aprire una riflessione teorica e critica sul significativo lavoro progettuale del grande maestro milanese.
Simone Lucci
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Nell’antica Roma, “mappa” era un panno di lino usato come tovagliolo sulle tavole patrizie. Era detto “mappa” anche il drappo rosso con il quale i bestiari eccitavano il toro nel circo, e pure il panno che l’imperatore gettava nell’arena per dare inizio alle corse. Nell’era volgare, la mappa entra nel rituale liturgico cristiano per ricoprire gli altari, mentre gli antichi agronomi chiamavano “mappa”, perché eseguita su tela, ogni rappresentazione grafica di una zona di terreno. Da qui l’uso moderno della parola.
Nel corso della storia, le mappe hanno permesso grandi viaggi di esplorazione, la scoperta di città e continenti sconosciuti; la diffusione delle automobili, poi, ha richiesto cartine stradali sempre più aggiornate alle quali si sono affiancati gli apporti del mondo virtuale.
Dalla riflessione sul valore estetico della cartografia nasce a Torino Frank&Frank, un progetto in cui metropoli, vie e quartieri realizzati in pelle e intagliati a laser diventano opere urbane, uniche e su misura, per arredare le pareti di casa e non solo. Marcella Molinini e Roberto De Gregorio, fondatori del brand torinese, hanno applicato alla cartografia la loro pluriennale esperienza nel settore della moda e del design. Disegnare città sulla pelle è un processo di riduzione della mappa dall’immagine a una struttura quasi astratta, un modo artistico di interpretare un luogo fatto di linee ed equilibri essenziali. Il risultato è un’opera in cui la vita quotidiana e l’arte si incontrano.
Una volta disegnata la città, la pelle è sottoposta al taglio laser per estrarne le parti, segue poi una pulizia manuale per eliminare tutte le imperfezioni. Le pelli utilizzate sono “conciate al vegetale”, poiché nel processo vengono utilizzati tannini ottenuti dal tronco e dalla corteccia degli alberi, e successivamente colorate con sostanze derivanti da piante e fiori che donano sfumature sempre diverse. L’estrazione di queste sostanze naturali avviene senza danneggiare il patrimonio ligneo in quanto si utilizza lo scarto della lavorazione del legno. Le pelli, inoltre, sono biodegradabili e ipoallergeniche, prive di cromo, metalli e sostanze chimiche sintetiche.
“L’azione del tempo genera delle imperfezioni sulla pelle che per noi sono una sorta di ornamento spontaneo e rappresentano il vero fascino di questo progetto – spiegano Marcella Molinini e Roberto De Gregorio –. E così la pelle torna a raccontare il proprio passato, e ogni pezzo dunque è unico e irripetibile come le antiche mappe appese nelle case e che possiamo ancora vedere in alcuni dipinti del ’600”.
Nascono anche altri due progetti legati alle città: SkinCities e Città Invisibili.
Con SkinCities, Frank&Frank propone una riflessione sulla necessità di stabilire pari dignità ai luoghi della Terra. La mappa ha il potere di spogliare le città da qualsiasi pregiudizio, grazie alla sua neutralità dona dignità ai loro abitanti e fa riemergere la storia e le dinamiche che le accomunano. Sulla pelle di cammello asiatico che reca impressa la città di Kandahar, antica capitale dell’Afghanistan, si leggono le memorie del passato: le vie carovaniere, la culla della civiltà indo-iranica, e i terribili conflitti. Hable e Matan, due città gemelle geograficamente, una Israeliana e l’altra Palestinese, sono visivamente l’esempio più esplicito di luoghi vicini ma diversi, separati dal muro che divide Israele e Palestina.
Le città Invisibili, invece, sono quelle che non esistono più e sono sostituite da un gesto artistico di land art che ne ricorda la presenza, come il Cretto di Burri a Gibellina Vecchia. Sono le città transitorie, complesse, la cui vita dura poco più di una settimana o che sono state distrutte come Aleppo, città antichissima, dove più di un milione di persone in fuga da guerra e disperazione cercano di riorganizzare la loro esistenza.
Le città sono una superficie di scrittura, luoghi che testimoniano l’esistenza di miliardi di persone, e i progetti Frank&Frank possiedono una sensibilità antica caratterizzata da un taglio moderno destinato alla sensibilità del nostro tempo. Italo Calvino afferma: “le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”.
Simone Lucci