ANEMOTECH: UN TESSUTO
TheBreath® è il primo tessuto in grado di assorbire le polveri sottili nocive presenti nell’aria e disaggregarle, reintroducendo in circolo aria pulita, per garantire un ambiente sano e sicuro.
Da oggi, nella nuova rivoluzionaria versione certificata ISO 18184:2019, questo tessuto svolge anche un’attività antivirus neutralizzando in 2 ore fino al 98,75% della carica virale.
La sua membrana esterna filtrante è infatti costituita al 100% da fibra di poliestere modificata con molecole attivate per l’abbattimento al contatto di batteri, muffe e virus. Il rivestimento esterno effettua un primo grado di filtrazione sulle polveri, e la parte interna al carbone attivo agisce sulle micro molecole inquinanti.
theBreath® è un’innovativa fibra multistrato, formata da tre sottili layers che lavorano in sinergia in un circolo virtuoso: due strati esterni in materiale idrorepellente con proprietà antivirali, battericide, antimuffa e anti-odore, traspiranti e stampabili, e uno intermedio costituito da una cartuccia in fibra carbonica adsorbente in grado di attrarre, trattenere e disgregare le molecole inquinanti e i cattivi odori presenti nell’aria.
Una soluzione rivoluzionaria per mezzi di trasporto pubblici e privati, scuole, negozi, centri commerciali e uffici, workspace, ambulanze, ambienti ospedalieri e luoghi ad alta densità di frequentazione.
Nasce da Anemotech, PMI innovativa Made in Italy.
CERTIFICAZIONI E TEST
Gli studi sull’efficacia di theBreath®, riferisce Anemotech, sono stati sviluppati in collaborazione con l’Università Politecnica delle Marche Dipartimento SIMAU e hanno superato diversi test sulla performance del prodotto, ottenendo importanti certificazioni.
Oltre alla già citata certificazione ISO 18184:2019 per la sua attività antivirale garantita fino al 98,75%, il tessuto ha superato anche i test:
ISO 16000-9 per la determinazione del flusso specifico per superficie di emissione di composti organici volatili (COV) da prodotti da costruzione di nuova produzione o prodotti di finitura in condizioni climatiche definite; UNI 11247 per la determinazione dell’indice di abbattimento fotocatalitico degli ossidi di azoto in aria da parte di materiali inorganici; ANSI/AHAMAC-1-2002 per misurare le prestazioni dei purificatori d’aria per uso domestico.
SEAS: UNA CABINA DI SANIFICAZIONE
SEAS è la società ingegneristica svizzera di ricerca e sviluppo che propone e garantisce un sistema di controllo e sanificazione per ridurre i rischi di contagio da Coronavirus.
L’azienda presenta SANYLIFE SEAS per la prevenzione e il contrasto ai patogeni, tra cui il Covid-19, adatto per un uso civile e industriale, sia da esterno che da interno.
Le cabine modulari e i tunnel retrattili sono personalizzabili in termini di dimensioni, configurazione e ciclo di sanificazione. Possono essere utilizzati in diversi contesti e per svariati utilizzi: dagli ospedali per la sanificazione del personale e dell’abbigliamento, ai luoghi con grandi flussi di persone come supermercati, centri commerciali, hotel.
Nella prima fase, il software è in grado di filtrare gli accessi tramite il riconoscimento facciale, la misurazione della temperatura corporea e il controllo dell’uso della mascherina, inviando un segnale acustico e un avviso pop-up, e interrompendo il processo di sanificazione in corso, qualora la persona in ingresso avesse una temperatura corporea eccedente rispetto ai requisiti richiesti e/o non indossasse la mascherina.
Nella seconda sezione, sulla persona in accesso viene nebulizzato un liquido sanificante antivirale certificato, e nello stesso tempo a ciclo continuo l’aria viene tenuta asettica dal sistema UV-C ad alta pressione antivirale.
Nel passaggio della persona avverrà:
- completa sanificazione di: suole scarpe, ruote passeggini, ruote carrelli spesa, etc.
- completa sanificazione degli indumenti per la parte a contatto con l’esterno.
L’azienda assicura che non vi è nessuna criticità o pericolo per il viso poiché questo non è direttamente colpito dal processo di nebulizzazione e dalla decontaminazione a ciclo continuo dell’aria.
BABAK MONAZZAMI: UN NUOVO TIPO DI MASCHERINA
Una mascherina in plastica e silicone bene aderente al volto consentirebbe di isolarci e annientare i virus. Questa mascherina prevede un piccolissimo serbatoio contenente alcool e olio di lavanda, o semplicemente propoli.
La propoli, prodotta dalle api, è la sostanza resinosa che riveste gli alveari e li protegge dagli agenti esterni: muffe, funghi, batteri. Oltre a essere un antibatterico è anche un antivirale che agisce su molti ceppi di virus, come quelli di influenza, raffreddore e herpes.
L’olio di lavanda è dotato di numerose proprietà e trova largo impiego nell’ambito dell’aromaterapia, dove è rinomato per le sue proprietà calmanti e rilassanti. Diversi studi hanno confermato che l’olio essenziale di lavanda possiede una discreta attività antibatterica e un’interessante attività antifungina.
I filtri di questa maschera fanno passare l’aria solo verso una direzione (a senso unico). In caso di ingresso in direzione opposta si chiudono.
“La mascherina ha 2 filtri: uno di entrata e uno di uscita. Quando si inspira, soltanto il filtro di entrata è aperto. Quando si espira il filtro di entrata è chiuso e si apre solo quello di uscita.
L’aria esce passando attraverso l’olio e l’alcool ed è lì che i virus vengono annientati. Per legge fisica, l’alcool resta sotto. Sopra, con il ruolo di evitare una possibile inalazione da bocca o naso, c’è l’olio di lavanda o la propoli”, spiega Monazzami.
La mascherina nasce dall’idea di Babak Monazzami esperto di terapie naturali e (TIM) Medicina Tradizionale Persiana. Ne ha disegnato il prototipo e attualmente cerca finanziatori per il lancio sul mercato.
SIGNIFY: UNA LAMPADA
Signify (Euronext: LIGHT) ha ideato una lampada da tavolo per neutralizzare la presenza di virus e batteri all’interno della propria abitazione. Si chiama UV-C ed è a marchio Philips.
L’azienda garantisce la neutralizzazione di virus, batteri, muffe e spore.
Il tempo per disinfettare una singola stanza varia a seconda delle dimensioni e del tipo di superficie o di oggetti presenti al suo interno. Ad esempio, un soggiorno di medie dimensioni richiede circa 45 minuti di esposizione alla luce UV-C, mentre una camera da letto ne richiede 30, e un bagno circa 15.1
La lampada presenta un pannello di controllo intuitivo e l’integrazione di comandi vocali. Poiché l’esposizione ai raggi UV-C può essere dannosa per gli occhi e la pelle, l’assistente vocale, prima di avviare il ciclo di disinfezione, chiede agli utenti di abbandonare la stanza. Un’ulteriore protezione è offerta dalla presenza di sensori integrati che, nel caso venisse rilevato un qualsiasi movimento, provvederanno a spegnere immediatamente la lampada.
Tutti i batteri e i virus testati fino a oggi rispondono positivamente alla disinfezione UV-C..“Mentre il mondo si sta adattando alle sfide e alla ‘nuova normalità’ dell’era Covid-19, noi di Signify ci sentiamo in dovere di contribuire alla crescente necessità di sanificare oggetti e superfici da parte delle persone. Da qui nasce la lampada da tavolo Philips per la disinfezione UV-C. Questo innovativo dispositivo, dotato disorgenti luminose UV-C Philips, consente di neutralizzare diversi tipi di virus (incluso il SARS-CoV-2, virus responsabile del Covid-192) e batteri3 per contribuire a mantenere le proprie abitazioni al sicuro da microorganismi dannosi”, afferma Rowena Lee, Division Leader Digital Products di Signify. Nei test di laboratorio le sorgenti di luce UV-C hanno ridotto, in appena 9 secondi, la carica virale del SARS-CoV-2 (virus responsabile del Covid-19) presente su una superficie, a livelli inferiori a quelli rilevabili.
DISPONIBILITÀ
La lampada da tavolo Philips UV-C per la disinfezione è disponibile in Italia dal 25 gennaio 2021 (in esclusiva Amazon solo per i primi due mesi, fino al 27 Marzo).
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1Riferimenti di calcolo: soggiorno di 28 m2 con una portata di 3m, camera da letto di 20 m2 con portata di 2,5m, bagno di 13 m2 con 2 m di portata. L’efficacia della disinfezione varia a seconda del tempo di disinfezione, della distanza e del tipo di superficie e/o oggetto. Per approfondimenti si rimanda al manuale e/o alla pagina web.
2 Nei test di laboratorio le sorgenti di luce UV-C di Signify hanno ridotto la carica virale del virus SARS-CoV-2 presente su una superficie, a livelli inferiori a quelli rilevabili, in soli 9 secondi (Storm et al., 2020). Durante questo test è stata applicata un’esposizione a un’irradiazione UV-C di 0,849 mW/cm2 per la durata di 9 secondi, risultando quindi in una dose di UV-C di 7,64 mJ/cm2. La validità dei nostri prodotti per la disinfezione delle superfici tramite raggi UV-C (dotati delle nostre sorgenti luminose UV-C) è garantita a patto che si raggiunga la medesima quantità di raggi UV-C su ciascuna area della superficie irradiata.
3 La lampada da tavolo Philips per la disinfezione UV-C di Philips utilizza la tecnologia UV-C grazie alla sua comprovata efficacia nel neutralizzare virus e batteri. Per ulteriori approfondimenti è disponibile la seguente lettura: Malayeri et al., Fluence (UV Dose) Required to Achieve Incremental Log Inactivation of Bacteria, Protozoa, Viruses and Algae, 2016.
“Noi operatori del mondo fieristico abbiamo in primis il dovere di pensare al bene comune delle nostre aziende italiane e star loro accanto in questo difficile momento. Pertanto ho pensato di avviare una serie di partnership e progetti editoriali per far meglio conoscere le realtà delle PMI (piccole e medie imprese) che da anni rappresentiamo e promuoviamo a WHITE, per la maggior parte sconosciute al grande pubblico dei consumatori. In molti casi sono piccole aziende made in Italy distribuite in modo selettivo e attente alla qualità dei materiali e delle lavorazioni. Loro più di altre sono state colpite negli ultimi anni, e stiamo progettando una serie di iniziative per aiutarle a raggiungere il consumatore finale. Un supporto concreto per queste piccole e medie realtà, fiore all’occhiello del saper fare italiano”. Questo quanto afferma Massimiliano Bizzi, fondatore di WHITE.
WHITE, piattaforma di lancio delle PMI, è prevista in versione digitale dal 25 al 28 febbraio durante la Milano Fashion Week. La fiera dell’artigianato della moda svilupperà nei prossimi mesi, a partire da Aprile 2021 fino a Settembre 2021, una serie di progetti per raccontare, presentare e promuovere circa 150 brand sul WHITE B2B Marketplace.
Ma le novità non finiscono qui. “L’obiettivo che ci poniamo da parecchie stagioni, attraverso gli investimenti nei nostri progetti dedicati e attraverso la loro comunicazione a 360 gradi, è di sensibilizzare ulteriormente i compratori attraverso i loro stessi clienti a un acquisto responsabile, che contribuisca al sostegno delle PMI, della nostra economia e all’aumento della domanda di prodotti derivanti dal Made in Italy – precisa Brenda Bellei Bizzi, CEO di White -. Vogliamo sviluppare una maggiore coscienza verso un consumo consapevole, supportando i buyer che investono nell’acquisto di prodotti di artigianato evoluto, che promuovono anche filiere sostenibili e con un ottimo rapporto qualità/prezzo. La ripartenza della nostra economia deve avvenire portando alla luce prodotti e progetti non standardizzati, ma di grandissima qualità che, siamo certi, hanno tutte le caratteristiche per approdare nei migliori negozi internazionali”.
Tramite una serie di collaborazioni tra mondo editoriale e retail si vuole creare una narrazione sulle piccole e medie imprese che coinvolga canali digitali e magazine cartacei per far conoscere al pubblico queste aziende spesso poco note ai buyer e ai media. Si tratta di un panorama che ha bisogno di essere valorizzato e comunicato con un linguaggio moderno e accessibile per raccontare brand di qualità, giusto prezzo e design che convive con ricerca, sperimentazione e, a volte, sostenibilità.
WHITE nasce nel 2000, da un’idea di Massimiliano Bizzi, come sezione all’interno di MOMI (Moda Milano) che cambia il format fieristico esistente con un innovativo concept e layout espositivo. Da un primo nucleo di 19 espositori, oggi WHITE presenta circa 1500 brand all’anno; e nel 2002 diventa un format indipendente e si trasferisce a Superstudio Più in zona Tortona, a Milano. La fiera si allarga poi alle location di Tortona 13 e del Magna Pars, e prende vita il format WHITE Design, un progetto dove il pubblico di visitatori della manifestazione ha la possibilità di acquistare a prezzi democratici gli arredi della fiera ideati con materiali di recupero.
La fiera scopre e lancia talenti creativi come: Uma Wang e Stella Jean. Nel 2012, WHITE sbarca a New York con 50 marchi, e un anno dopo si aggiunge la sede di Tortona 35 Hotel Nhow. L’edizione di settembre 2018 ha inaugurato la collaborazione tra WHITE e Vogue Italia per il progetto #Shareable, la speciale formula di comunicazione potenziata offline e online attraverso il salone curata dalla special Unit di content curation della redazione di Vogue Italia. Tramite il programma #Shareable, i brand selezionati (Fiorucci, Fila, Liviana Conti, TPN per Lotto e Closed) godono di una formula di potenziamento della visibilità che mette in sinergia la cura visual dello spazio all’interno del salone con la produzione di contenuti foto e video appealing diffusi sulle piattaforme social di White e Vogue Italia.
Simone Lucci
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Chiunque nasca al Sud ha un po’ di cucina nel sangue. Lì il cibo è al centro di ogni cosa in ogni momento della giornata: nei mercati, in strada, e chiaramente in casa dove c’è tutto un racconto, una letteratura, una liturgia su come viene preparato. Questo è il pensiero di Gennaro Esposito, chef stellato, uno fra i protagonisti della rinascita gastronomica della Campania.
La prima stella Michelin la riceve nel 2001, la seconda nel 2008. Dal 2003 il riconoscimento delle tre forchette del Gambero Rosso e nel 2006 la valutazione dell’Espresso quale miglior ristorante campano. Nel 2011 il congresso gastronomico Identità Golose lo nomina “Migliore Chef Italiano dell’Anno” e la guida del “Gambero Rosso” lo inserisce tra i primi tre chef Italiani.
L’abbiamo visto in alcuni programmi televisivi come conduttore e parte del cast o ospite in trasmissioni quali Junior MasterChef, La Prova del Cuoco e Masterchef Italia, e poi TV8.
Chi ti ha trasmesso la passione per la cucina?
Al sud s’impara facilmente, soprattutto se come me hai una madre bracciante agricola che ti trasmette una profonda conoscenza dei prodotti della terra e un padre che allevava polli e conigli per passione.
Ho avuto, poi, la fortuna di uno zio pasticciere che mi ha trasmesso la manualità. A 9 anni, un po’ per gioco e un po’ per lavoro, sono finito nella sua pasticceria, lì mi sentivo a casa…. E avevo già un’indipendenza economica.
E dopo l’esperienza in pasticceria?
Più in là intraprendo gli studi gastronomici, iscrivendomi all’istituto alberghiero della mia città. Mi diplomo nel 1988, insieme all’amico e compagno di scuola Antonino Cannavacciuolo.
Poi ho lavorato in posti molto semplici e ho cominciato a comprare i libri di tecnica della cucina per conoscere meglio la cucina “classica”.
Sono cresciuto nella cucina degli anni ’70, pomposa e sempre meno italiana: quella delle farfalle al salmone, del risotto allo champagne, del cocktail di gamberi. In quella cucina, le nostre meravigliose materie prime non avevano il ruolo che meritavano.
Decido poi di lasciare la Campania e faccio un lungo giro partendo dal nord Italia, salendo fino in Francia.
Lo studio inizia a essere affiancato alla pratica. Grazie al mio primo stage entro in contatto con il “maestro”, Gianfranco Vissani. Il suo è stato il primo grande ristorante dove ho messo piede dal punto di vista lavorativo.
Nel 2001, poi, lavoro con il grande chef Alain Ducasse, grazie al quale mi perfeziono anche all’estero, a Parigi (al Plaza a Athénée). In seguito, il passo verso le grandi cucine del Le Louis XV a Montecarlo è breve. Imparo così la disciplina, l’arte del mestiere, la cura maniacale per ogni dettaglio. Avevo una gran voglia di fare, per cui torno al Sud e nel ’91 apro La Torre del Saracino con cui conquisto due stelle Michelin, una nel 2001 e l’altra nel 2008.
Hai dichiarato: “Mangerete la mia storia”. Quali piatti identificano la tua storia?
Un po’ tutti, non propongo piatti che non mi appartengono. La mia storia è quella di un uomo che ama il mare, i sapori forti e di carattere: l’odore della crosta di pane, le alghe o i frutti di mare con peperoncino e prezzemolo. Voglio regalare al mondo le linee guida della cucina mediterranea. Una cucina che ti riscalda il cuore e l’anima, ma anche una cucina di contrasti, una cucina che non dimentichi più, che non cerca il sapore utilizzando elementi esotici, ma lo trae dai nostri prodotti. Una cucina che colpisce il cuore senza nessun trucco e nessun inganno.
Oggi ciò che muove il mio cuore è la cucina della mia famiglia, della mia infanzia, dei miei luoghi, arricchita dalle varie esperienze fatte in giro, dai numerosi congressi di gastronomia cui ho partecipato anche come relatore.
Quando crei nuovi piatti, qual è la tua fonte di ispirazione?
Un piatto dice chi sei. Le esperienze di lavoro, ma anche il tuo carattere e ciò che vuoi regalare agli altri come emozione. Spesso un piatto nasce da un ingrediente, da un ricordo. Per esempio, tempo fa ho scoperto un cipollotto che ho trovato talmente elegante, dolce e di carattere da trarne ispirazione per un risotto con la cipolla ramata. Ho pensato che questa cipolla potesse sostituire il brodo e desse cremosità, e ho poi contrastato la dolcezza giocando con limone, peperoncino e sugarello bianco affumicato.
È nato così un piatto divertente che mette insieme elementi semplici e quotidiani.
Cosa comunicano i piatti di Gennaro Esposito?
Con i miei piatti voglio raccontare la mia terra. Cerco sempre di dare importanza a prodotti che sono poco conosciuti, perché penso siano questi a dare un’identità forte alla tua cucina: il pomodorino del Vesuvio, il limone “femminiello sorrentino”, ad esempio. Oppure utilizzo elementi semplici come cipolle, patate, fagioli e li combino col pesce (io amo la cucina col pesce!) per creare una sorta di gioco e per incuriosire il cliente che è sempre più esigente.
Come descriveresti il tuo stile tra i fornelli?
In cucina è importante creare un’ambiente piacevole, leale e di valori. Bisogna arrivare motivati, concentrati e bisogna divertirsi.
Ci trascorriamo parecchio tempo, chi lavora con me passa più tempo in cucina che con mogli e fidanzate.
Se volessimo dare 3 aggettivi allo stile dei tuoi piatti?
Devono avere immediatezza, ma devono anche essere persistenti nella memoria e poi devono far sorridere. Quindi direi: immediati, persistenti, sorridenti.
A quali alimenti non puoi rinunciare?
Non potrei vivere senza la freschezza del limone, senza un buon olio d’oliva, il pomodoro, la pasta, la borragine, l’origano fresco selvatico appena raccolto.
C’è un ritorno al mangiare sano?
A casa puoi scegliere cosa comprare, al ristorante sei “costretto a subire”, ma si possono fare anche scelte più sostenibili, scegliere il biologico o tutelare alcune esigenze come il vegano, il vegetariano.
In Italia 374 ristoranti stellati, di cui 11 tre stelle, 35 due stelle e 328 con una stella. La Lombardia è la regione più stellata, con 6 novità: 62 ristoranti (3*** 5** 54*). Il Piemonte, con 4 novità, è sempre in seconda posizione, con 46 ristoranti (1*** 4** 41*), mentre la Campania, con 6 novità, si colloca al terzo posto del podio, con 44 ristoranti, (6** 38*). A seguire, la Toscana, con 6 novità, per un totale di 40 ristoranti (1*** 4** 35*) e, infine, il Veneto, a quota 37, con due novità (1*** 4** 32*). C’è vitalità e la forza scorre impetuosa tra i fornelli nostrani. Ci sono cose da correggere? Quali secondo te?
La guida Michelin fa un’analisi positiva e intellettualmente onesta… Penso che oggi in cucina ci siano molti cialtroni, molti improvvisati perché il numero dei ristoranti è aumentato a dismisura, ma sostanzialmente i posti in cui si mangia bene sono sempre gli stessi. Raramente vengono fuori delle novità interessanti, coerenti ed eticamente corrette. Nel segmento medio basso trovo ci sia tanto da fare, soprattutto sul versante della tradizione. La maggioranza sceglie la strada della creatività, dell’innovazione e pochi si vogliono confrontare con la nostra meravigliosa tradizione, che è il nostro distintivo ed è una scienza esatta perché già collaudata. Gli chef delle nuove generazioni devono studiare e prendere più in considerazione le nostre radici, fonti di bagaglio tecnico e culturale. Le stiamo sciupando. I menu wasabi, o salsa da chissà dove, mi fanno arrabbiare moltissimo perché significa che si continua a non capire niente… Ho assaggiato una mortadella fatta col minestrone, non la conoscevo e mi sento colpevole ogni volta che non conosco un prodotto. L’Italia è piena di prodotti e sono quelli che si devono utilizzare.
Quali sono gli immancabili attrezzi del mestiere?
Ho dei legami affettivi con molti degli utensili che utilizzo in cucina. Il tagliere, il coltello, una pentola che magari mi ricordano il momento in cui li ho comprati o dove. Ci sono tante storie legate agli oggetti. L’evoluzione della cucina deve parecchio anche all’evoluzione di questi utensili. C’è un ritorno al rame, non solo dal punto di vista romantico ma proprio funzionale, per alcune cotture più dolci, più lente e tradizionali. Abbiamo poi le pentole in ghisa, in ferro. Oppure quelle con varie stratificazioni: rame, acciaio, argento, che sembrano solo in acciaio e consentono cotture molto delicate, pensiamo ad esempio allo zabaione o al risotto.
Siamo nell’epoca dello “chefstar”?
In qualche modo ci siamo, ma forse ne stiamo uscendo. Spero rimanga del buono in questo tipo di cucina. Bisogna capire se la gente vuole chef che facciano spettacolo in tv sbattendo piatti per terra e mostrando frigoriferi sporchi, o preferisce che ci si soffermi a illustrare i diversi cibi; qualcosa di forse più noioso ma di certo più serio e più interessante.
Dal 13 novembre 2017, su TV8 (tasto 8 del telecomando) Cuochi d’Italia, la sfida culinaria dell’autunno condotta da Alessandro Borghese. I giudici? Gli chef stellati Gennaro Esposito (La Torre del Saracino) e Cristiano Tomei (L’ Imbuto). Che giudice sei?
È una postazione inedita per me, il mio lavoro non è quello di giudicare, sono un giudice che vuole imparare. È questo il mio approccio. Ascolto storie meravigliose su ricette, prodotti, aneddoti.
In trasmissione vedo errori imperdonabili, perfino la dimenticanza del sale, ma anche cuochi meravigliosi e piatti che lasciano senza fiato. Imparo tantissimo anche da loro, apprendo pure ciò che non devo fare. Assaggiare, condividere i pensieri con Tomei crea un dibattito e un confronto che aiuta tutti a crescere. Penso che sia un’opportunità anche per chi guarda da casa perché al di là dello show, che c’è perché deve esserci, ci sono una serie di spunti che aiutano a migliorare, utili anche per progettare la spesa del giorno dopo.
Cosa non deve mancare al Miglior Cuoco Regionale d’Italia?
La conoscenza delle proprie radici: tradizione, prodotti e storia.
L’umiltà e i sapori nei suoi piatti.
Nel 2016 con Borghese anche l’esperienza di Junior Master Chef. Ho chiesto ai miei nipotini di porti delle domande, la prima è: Perché ti piace cucinare?
Perché è un mestiere che ti da’ la possibilità di essere creativo e libero. È un mestiere che ti consente di guardarti allo specchio senza guardarti allo specchio: ti fa capire chi sei. La cucina mi ha dato tutto quello che ho: la dignità di un lavoro, un ruolo e, perché no? Un pizzico di celebrità. Mi ha dato un obiettivo e la possibilità di realizzare tanti sogni.
Cucini da quando eri bambino?
A 9 anni sono finito nella pasticceria di mio zio, lì mi sentivo un po’ a casa…un po’ per gioco e un po’ per lavoro. Avevo già un’indipendenza economica. Ogni giorno succedeva qualcosa, non ci si annoiava mai, e poi i profumi i sapori! È stata un’esperienza importante.
Qual è il tuo piatto preferito?
Io amo il cibo e mi circondo di persone che lo amano. Fortunatamente ho una moglie e dei bambini meravigliosi e pure loro lo amano. Il cibo, anche nelle case, va trattato con la sacralità che merita. Mi piacerebbe rivedere nelle scuole la figura della cuoca. Ricordo che quando andavo a scuola c’era una meravigliosa cuocona che cucinava per i bambini: pasta e lenticchie, pasta e ceci o pasta col pomodoro… Ricordo anche che cucinava il pesce, ma era orribile… Ma soprattutto ricordo i profumi che inondavano le classi. Quando era ora ci si lavava le mani e si andava alla mensa. Oggi giro per le scuole per lavoro e per curiosità, vedo i bambini che mangiano negli stessi banchi in cui giocano, cibi preparati anche a centinaia di km che arrivano, a volte, in condizioni davvero discutibili, con profumi improbabili, pietanze servite nei piatti di plastica e posate di plastica. Questo in Italia, al sud! La trovo una cosa imperdonabile che incide sul benessere dei bambini. E a casa, poi, forse mangeranno sul divano e/o davanti alla play station. No, non va bene…
I tuoi figli cucinano?
Ho 2 figli. Emanuele e Isabella. Emanuele a 4 anni iniziava a mescolare gli ingredienti per la torta di mele…
Assaggi mentre cucini?
Sì, poco, ma assaggio.
Preferisci cucinare dolce o salato?
Salato.
Cucini anche a casa?
Cerco di non farlo. Mia moglie cucina benissimo, faccio l’ospite che è meglio!
Clementina Speranza
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La scomparsa di Paolo Rossi ha colpito gli italiani già provati da un anno infausto. La notizia, arrivata qualche giorno dopo l’addio a Maradona, non ha innescato solo un cordoglio calcistico, come per l’argentino, ma una commozione generale, della gente comune, anche di chi non seguiva il calcio. Chiunque non sia un millennial ha visto riaffiorare le emozioni che il Pablito nazionale scatenò nell’estate del un’icona del calcio; in tanti sono tornati a ricordare quegli anni.
Siamo nei mitici anni ’80 che lentamente si liberano delle tensioni terroristiche del precedente decennio, anni in cui si vogliono dimenticare le inquietudini politiche e si prende la vita con maggior leggerezza. Non lo sapevamo ma eravamo più ricchi, più liberi, più felici. E la vittoria del mondiale spagnolo, inaspettata e imprevista, segna la fine dei cupi anni ’70. Scatena una gioia irrefrenabile, la prima grande festa collettiva e aggregante, cancellando sinistra e destra, borghesi e proletari, politici e contestatori. Tutti sul carro dei vincitori, anzi su carri, carrette, macchine e motorini strombazzanti con tricolori di ogni foggia e materiale, urlando e cantando per paesi e città.
Un carro, quello azzurro, prima dei mondiali non sostenuto da gran parte della stampa sportiva che contestava al c.t. Enzo Bearzot la cocciuta scelta di portare in Spagna e schierare proprio Paolo Rossi, reduce da alcuni mesi di squalifica dopo un dubbio verdetto nel primo processo sul calcioscommesse. Ma la nazionale si compatta e pensa solo a giocare, mandando un unico rappresentante a parlare con la stampa, il capitano Dino Zoff, da sempre parco di parole.
Una buona squadra quella italiana, con giocatori che avremmo imparato a chiamare campioni e con un grande catalizzatore, l’eroe di quel mondiale: Paolo Rossi che, nella partita impossibile contro un Brasile stellare e danzante, inizia a segnare, ben tre gol, e si ferma solo in finale con la Germania, regalando di fatto l’unità al paese con la prima vera vittoria dell’Italia. Ecco perché Paolo Rossi non è solo un calciatore, ma un’icona, un dolce ricordo per chi abbia attraversato quegli anni. Uno scricciolo di atleta con un sorriso più grande delle spalle, con la genuinità di un ragazzo qualunque. Non era di Prato, di Vicenza o di Perugia, non era juventino o milanista, Paolo Rossi era un ragazzo come noi, come cantava Venditti, solo un ragazzo italiano che giocava a pallone, con le ginocchia rotte ma rapido come un fulmine, detto “Pablito”.
La commozione all’inaspettata notizia della dipartita di Paolo Rossi ha innescato così, in coloro che hanno memoria di quei giorni, le emozioni e i ricordi di un mondo che non c’è più, di un’Italia, di una vita, di una semplicità perdute, uccise dalla tecnologia e dall’economia, affossate dal Covid. Come una novella “madele ine” con la sua scomparsa ha riportato alla vita la memoria di quei giorni, proprio quei giorni dei tre gol al Brasile, delle vittorie su Argentina e Polonia, siamo ritornati esattamente a quell’11 luglio 1982, con le persone presenti allora con noi, riabbracciandole e ribaciandole come in un sogno. Salutandoci, Pablito, ha fatto tornare emozioni dimenticate e, rammentandole, siamo stati ancor più tristi perché ci siamo accorti di quanto fosse bella quella vita, vissuta con innocenza e speranza. Alla fine, però, ci è scappato un sorriso, come uno dei suoi, ricordando che quando in giro per il mondo qualcuno ti riconosceva come italiano, gridava: “Paolo Rossi, Paolo Rossi!”
Fabio Conte
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Il 4 dicembre 2019 si ipotizzava l’acquisizione di Moncler da parte di un gruppo internazionale francese che opera nel settore della moda e del lusso.
Il 4 dicembre 2020, esattamente un anno dopo, la società italiana Sportswear Company che detiene il marchio Stone Island diventa di proprietà della Moncler S.p.A. guidata da Remo Ruffini.
I ruoli si sono invertiti, da venditore ad acquirente, e galeotta è stata una convention di Carlo Rivetti, direttore creativo di Stone Island. “Una sera di alcuni mesi fa, mio figlio Romeo partecipa a un convegno tenuto da Rivetti e nota che entrambe le aziende possiedono la stessa cultura, passione, il medesimo rigore gestionale, il rispetto per il brand e per i consumatori – racconta Ruffini, amministratore delegato di Moncler –. Contatto Carlo Rivetti, e da una chiacchierata è nata l’idea dell’acquisizione, o come preferisco definirla io: l’unione di due famiglie”.
L’operazione nasce con lo scopo di sviluppare una nuova visione di lusso che coinvolga anche ragazzi tra i 18 e i 25 anni, rafforzando la capacità giovanile di interpretare i codici culturali delle nuove generazioni, e per migliorare la sinergia tra mondo reale e canali digitali, avvicinandosi così al mercato asiatico.
L’idea è anche figlia dell’emergenza che il mondo sta vivendo.
“Non si può aspettare la ripresa o un cambio di rotta dei mercati, bisogna agire – afferma Remo Ruffini –. Proprio in questi momenti si devono stimolare nuove energie e nuove ispirazioni per progettare il domani. È un bel messaggio per l’Italia”.
Dalle vette quota 8 mila metri alle quotazioni in borsa nel 2013, dalle passerelle per l’alta moda all’acquisizione di Sportwear Comanpy. La storia di Moncler e del piumino si può considerare una vera e propria scalata, iniziata a Monestier de Clermont (da qui l’abbreviazione Moncler), paesino francese poco distante da Grenoble in cui nel 1952 era nata l’azienda che produceva sacchi a pelo, tende foderate e un unico modello di capospalla con logo rosso, bianco e blu: una mantella con cappuccio.
Il primo piumino, realizzato nel 1954, viene testato in quota da una spedizione italiana sul K2. Promosso a pieni voti: le elevate caratteristiche tecniche e l’invenzione della piuma Duvet lo rendono leggero e caldo.
Il piumino pensato per prestazioni sportive scende poi tra le strade delle città, si reinventa di continuo, si adatta ai colori e alle forme del periodo storico.
Dalle divise della scuola francese di sci che invadono le piste e le Olimpiadi del 1968, alla moda simbolo di status dei “paninari” degli anni ’80, con colori scintillanti, nylon lucidi e forme oversize, fino all’entrata in scena di Remo Ruffini che rileva il brand nel 2003 e posiziona Moncler nel mondo del lusso. Nascono allora: Gamme Rouge, Moncler Gamme Bleu e Grenoble, capi ricercati che si adattano alla città e alle vette innevate vestendo un pubblico sempre più selezionato.
Sono stati recentemente creati capispalla d’alta moda con design all’avanguardia. La collaborazione con la Maison Valentino costituisce un chiaro esempio di sinergia tra sperimentazione e Haute Couture. Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino, ha presentato i nuovi piumini Moncler Pierpaolo Piccioli a Parigi, al Musée Picasso, durante il primo giorno della PFW Haute Couture 2020.
Simone Lucci
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Stone Island (nome che deriva da due vocaboli inglesi ricorrenti nei romanzi di Joseph Conrad) nasce nel 1982 dall’idea di Massimo Osti, che aveva studiato vari tipi di tessuti e si era concentrato su un telone bifacciale, rosso da un lato e blu dall’altro, utilizzato per produrre le coperture dei camion. Il tessuto viene chiamato Tela Stella ed è sviluppato in una collezione di sette capospalla declinati in sei varianti bicolori. Al lancio della collezione, in soli 10 giorni vengono esauriti tutti i capispalla disponibili nei negozi, tanto è il successo del brand.
Nel 1983, Massimo Osti decide di dedicarsi esclusivamente al lato creativo dell’azienda e il Gruppo Finanziario Tessile di Torino sposa il progetto Stone Island.
L’azienda continua a evolversi con nuove sperimentazioni e innovazioni nel campo dei tessuti e dei materiali, uno su tutti quello dell’Ice Jacket, tessuto sensibile che cambia colore al cambiare della temperatura. Nel 1993 Carlo Rivetti subentra in azienda, chiamandola Sportswear Company. In quel periodo Osti lascia la C.P. Company per passare esclusivamente al marchio Stone Island fino al 1995.
Dopo la collaborazione con Paul Harvey che ha curato 24 collezioni, Rivetti, da presidente e a.d. del gruppo, decide di gestire sul piano creativo il marchio con più persone da tutto il mondo, creando una vera e propria squadra (2008).
Nei primi mesi del 2010, l’azienda Sportswear Company vende C.P. Company alla FGF di Enzo Fusco.
Nel 2011 Stone Island, ormai senza CP Company, aumenta il proprio fatturato del 4%, e nel luglio 2017 il fondo sovrano del Governo di Singapore, Temasek, entra in Stone Island rilevando il 30%.
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