La moda si interroga sul suo prossimo futuro e come dovrà contribuire alla transizione verso l’economia circolare. La Comunità Europea ha tracciato un percorso chiaro verso la sostenibilità della produzione di capi di abbigliamento che accompagnerà i brand da qui fino al 2030, data in cui dovrà essere raggiunto l’obiettivo. Il 12 ottobre, nello store Orefici 11, a Milano, si è svolto un talk che ha affrontato il tema della moda circolare e ha messo a confronto giornalisti, professionisti del settore e Lifegate, network di informazione e servizi a sostegno di tutti i soggetti che lavorano per un ambiente sostenibile. Consapevoli che la moda è uno dei settori che dovrà contribuire all’economia circolare, quale è lo stato dell’arte? Su cosa stanno lavorando i brand del settore? A questi e altri interrogativi sono stati invitati a rispondere: Ilaria Chiavacci (giornalista che si occupa di moda, sostenibilità, ambiente, sport e outdoor), Julian Lings (The North Face Senior Sustainability), Silvia Stella Osella (consulente creativa), Matteo Aghemo (co-founder di Must Had). A moderare il dibattito Tommaso Perrone (Direttore di LifeGate).
A che punto siamo da qui al 2030 per rendere il settore della moda più riciclabile? “La questione della sostenibilità della produzione di capi di abbigliamento risale agli anni 70, ma l’idea che le risorse fossero illimitate e la innata capacità del pianeta terra a mantenere in equilibro l’ecosistema, ha fatto si che solo oggi, dopo l’evidenza scientifica del cambiamento climatico in corso, si prenda reale coscienza del problema – risponde Ilaria Chiavacci -. La nascita del fast fashion, la produzione di grandi quantità di abiti a costi bassi, con un elevato numero di collezioni durante l’anno, ha spinto tutti i brand a una sovraproduzione. Il consumatore si è abituato a un continuo inserimento di prodotti nuovi che ha spinto anche i brand di pret-a-porter a produrre un numero maggiori di collezioni. Ora siamo arrivati a una sovraproduzione eccessiva. Si stima che ogni cittadino dell’unione europea compri annualmente circa 26kg di prodotti tessili, che equivale a circa 650kg di CO2 nascosta. Ed è avvilente scoprire che molti di questi abiti non riusciamo neanche a indossarli, solamente in Italia finiscono in discarica 1,5 tonnellate di rifiuti tessili ogni anno. Nel 2013 la tragedia in Bangladesh, del crollo di un palazzo in cui stavano lavorando molti operai nella manifattura tessile, con migliaia di morti, è stato uno spartiacque. Da allora sempre più brand hanno cominciato a pensare ad una produzione che sia sostenibile per l’ambiente. In sostanza oggi, l’Europa ci chiede di produrre meno, è stato preparato un documento programmatico che ha l’obiettivo di arrivare nel 2030 ad avere le aziende di moda con una produzione che soddisfi determinati requisiti. Le aziende sono obbligate a pensare il nuovo prodotto con una ottica circolare fin dalle prime fasi del design per giungere fino al fine vita, solo così sarà a ridotti consumi di energia e di acqua. L’introduzione dell’utilizzo delle fibre riciclate non sarà sufficiente a limitare la CO2 se continuiamo a produrre in sovrabbondanza. La moda deve abbracciare l’economia circolare e per fare questo deve adottare la capacità di produrre nuovi capi partendo da quelli vecchi”.
Fin dagli anni 70 avete iniziato un percorso per migliorare il brand. Come cambia l’azienda? “The North Face è una azienda che fin dagli anni 60 è stata sempre qualcosa di più di un brand, i fondatori avevano una visione molto chiara sulle sfide del mondo, come affrontare le tematiche dell’ambiente e delle problematiche sociali dei lavoratori – precisa Julian Lings -.La circolarità nel nostro settore non era assolutamente presa in considerazione, solo pochi brand avevano la sensibilità per valutare l’impatto ambientale della produzione tessile, mentre ora tutti i brand dovranno darsi una vera regolamentazione. Noi abbiamo iniziato ben prima che se ne parlasse, il reparto di ricerca e sviluppo e la produzione ha sempre collaborato con gli atleti, al fine di garantire dei prodotti con alte performance e con la prerogativa di durare molto nel tempo, mantenendo le sue specifiche caratteristiche tecniche. Nel ’71 è stato aperto il dipartimento di durabilità e riparabilità. Abbiamo iniziato con l’obiettivo di incrementare la longevità degli articoli, offrendo il servizio di riparazione dei prodotti. Se piace il prodotto, ma si è rotta la cerniera di uno zaino per usura, noi possiamo ripararlo. E questo vale anche per un giubbotto, i segni dell’usura o piccoli tagli sulla stoffa si possono riparare andando così a creare un prodotto unico, cioè l’imperfezione diventa unicità. Tale prodotto andrà a creare una connessione con chi lo indossa, un rapporto speciale che ti accompagna nel tempo. Purtroppo, a livello globale, stiamo producendo troppi rifiuti, quindi parlando con altri brand, abbiamo deciso di produrre prodotti di alta qualità che durino nel tempo e che si possano riparare e al termine del ciclo di vita sia possibile il suo riciclo. Questo è il processo di economia circolare. È fondamentale decidere la circolarità nel momento del design, abbiamo sempre realizzato prodotti ad alta tecnologia e con lunga durata ma ora entra in gioco una nuova variabile: dobbiamo pensare alla circolarità. Cioè quando il prodotto rientra da noi deve essere scomposto per tornare materia prima e questo processo deve essere pensato nella fase di progettazione. Il percorso verso il riciclo è iniziato negli anni ’90 e possiamo affermare che oggi siamo arrivati a utilizzare il 90% di materiale riciclato. Ma questo non basta. Il nostro obiettivo non è solo raggiungere la piena economia circolare, ma dobbiamo fare cultura per portare nuovi valori al consumatore. Dobbiamo essere capaci di raccontare la storia del prodotto, dall’utilizzo di materie prime riciclate al difficile processo produttivo, fino a far comprendere l’importanza della sua durabilità con la possibilità di essere riparato e non gettato come rifiuto”.
Stiamo vivendo un periodo storico dal punto di vista delle opportunità, oggi ci sono delle regole ben precise che ci impongono di cambiare il modo di produrre.Durante la mia carriera lavorativa sono venuta a stretto contatto molti player che producevano filati o capi di moda con un eccesso di spreco – afferma Silvia Stella Osella, consulente creativa che dal 2009 guida il brand -. Piccole imperfezioni durante il processo produttivo, ad esempio un’imperfezione della trama della stoffa, era sufficiente per decidere di buttare al macero o letteralmente bruciare chilometri di stoffa. Ed è veramente sconsolante vedere che intorno a te non c’è nessuna volontà, da parte di ogni attore della lunga filiera coinvolto nella produzione di un capo, di percorrere la strada della sostenibilità. Dobbiamo arrivare al 2014 per cominciare a vedere produttori che pensavano alla sostenibilità ambientale. I primi passi si sono fatti sulla riduzione dell’inquinamento delle falde acquifere e nel rispetto dei diritti e delle condizioni di lavoro della manodopera impiegata. Prima non esisteva nessuna forma di collaborazione fra i vari soggetti della filiera, tutto era segreto, mentre da qualche anno si comincia a mettere in rete la conoscenza, a condividere le tecniche e i processi produttivi. Questo processo di condivisione sta subendo un’accelerazione grazie alle start-up che oggi lavorano su piattaforme open-source, dove si mette in rete le conoscenze nella ricerca, il design, e l’industria. Adesso il mercato della moda etica a basso impatto è variegato ed è molto più accessibile alle persone. Finalmente dopo tanti anni se ne parla”.
Matteo Aghemo è co-founder di Must Had, insieme a Arianna Luparia, Eugenio Riganti. Nata 3 anni fa, Must Had è una startup di abbigliamento upcycled, è una vetrina per i designer che creano capi rigenerati, un marketplace online che riunisce stilisti e brand artigianali che vendono prodotti generati partendo da scarti tessili o provenienti da altre industrie. L’idea alla base del progetto è semplice: riutilizzare ciò che già esiste e allungare la vita dei vestiti significa anche allungare la vita del pianeta. Everything deserves a second chance, tutto si merita una seconda opportunità, è il motto. “Must Had è un gioco di parole, per imparare a guardare quello che c’è già – spiega Aghemo -. Must have è un prodotto che dobbiamo assolutamente avere, il cui bisogno è spesso creato ad arte dal marketing. Mentre, coniugando il verbo al passato, must had, si vuole sottolineare che non è necessario produrre un capo nuovo perchè sicuramente c’è già, è possibile utilizzare risorse che sono già disponibili e che spesso chiamiamo scarto. Offriamo supporto alle aziende per gestire in modo circolare lo scarto di produzione, l’eccesso di magazzino, l’invenduto, i capi difettati, andiamo a identificare gli scarti così da poter dare una seconda vita al prodotto. Per fare questo abbiamo creato una community, un contenitore digitale del lavoro manuale degli artigiani, che allunga la vita al prodotto inserendolo nel circuito di vendita in un nuovo modo”.
A che punto siamo verso una moda completamente sostenibile? Che percentuale daresti al completamento del processo sostenibile?
C’è chi nasce come brand circolare, c’è chi ci pensa dagli anni ’70 e c’è chi ha iniziato 5 anni fa. Bisogna creare maggiori collaborazioni, fare sistema per creare nuovi processi produttivi. Bisogna ricreare la filiera, da quando inizi a pensare e a disegnare il capo a quando arriva il fine vita. In mezzo c’è un mondo di fornitori che devono essere tutti coinvolti. Inoltre, il riciclo di fibre miste diventa difficile, e qui ci devono aiutare le nuove tecnologie e l’industria chimica. Al 2030 manca pochissimo, siamo al 50% e la strada è molto lunga. Nel 2021, dopo il rallentamento dovuto al Covid, abbiamo ripreso la produzione tessile con un nuovo record di 113 milioni di tonnellate, sembra quasi che la fast fashion stia diventando ultra fast fashion. Purtroppo i colossi del fashion sono molto indietro, non stanno rivoluzionando il loro modello di business. In questo nuovo modello è importante la consapevolezza del consumatore. Dobbiamo imparare a raccontare la storia del prodotto, per fare comprendere il suo vero valore. C’è un percepito sbagliato sul valore economico dei capi che indossiamo, ad esempio, molti sono disposti a spendere 20 euro per una bottiglia di vino da consumare in una sera, ma non per una t-shirt che ti dura per 15 anni. Purtroppo la moda etica e sostenibile oggi costa di più, dobbiamo aumentare la produzione per contenere i prezzi. Per ultimo, ma fondamentale per la circolarità, il prodotto riciclato al termine della sua vita deve essere rispedito al produttore, e qui bisogna fare un’azione importante di comunicazione per educare il consumatore.
Naomi Campbell,Cindy Crawford,Linda Evangelista e Christy Turlington sono tra le top model più famose del mondo che hanno segnato la storia della moda provocando anche un forte impatto sulla cultura di massa, prima dei social, prima delle influencer, prima di una società in cui la celebrità è così diffusa e virtuale. Oggi le loro carriere vengono raccontate con un documentario suddiviso in quattro parti e disponibile dal 20 settembre in streaming su Apple TV+.
Il progetto “The Super Models” realizzato da Imagine Documentaries e One Story Up e diretto dal premio Oscar Roger Ross Williams e da Larissa Bills pone lo sguardo sulla vita di queste professioniste, porta gli spettatori dietro la macchina da presa e nel dietro le quinte delle sfilate, svelando come le supermodelle hanno dominato le passerelle e fa luce sulle dinamiche che hanno cambiato la moda. Il documentario riporta gli spettatori agli anni ’80, quando quattro donne provenienti da diverse parti del mondo si ritrovano a New York. Popolarissime singolarmente, raggiungono insieme un potere mediatico che va oltre il settore fashion. Il loro prestigio superava la fama dei marchi che rappresentavano, e i nomi di Naomi, Cindy, Linda e Christy diventano importanti tanto quanto gli stilisti che le vestivano.
Negli anni ’80 e ’90, però, anche Iman, Claudia Schiffer, Helena Christensen, Carla Bruni, Eva Herzigová, Nadège, Jerry Hall, Farida Khelfa, Inès de La Fressange, Elle Macpherson, Carol Alt, Kate Moss conquistano le passerelle e nell’immaginario collettivo creano il canone di bellezza dell’epoca: la donna irraggiungibile, perfetta, dal fisico statuario. Ma non sono solo belle, le top model non indossano semplicemente degli abiti, ma li interpretano con il loro carisma, con la loro identità ed espressione.
Alcune modelle hanno rivoluzionato il mondo della moda a colpi di copertine sulle riviste più prestigiose (Vogue, Elle, Harper’s Bazaar), sfilate spettacolari e contratti milionari. Gli stilisti, infatti, facevano a gara per averle in passerella, offrendo loro dei compensi stratosferici. Per questo fatto è diventata famosa la frase di Linda Evangelista: “Non mi alzo dal letto per meno di 10 mila dollari al giorno”.
Le top model hanno ridefinito il concetto di stile, di bellezza e creato un’era indimenticabile. Con il loro talento e coraggio hanno lasciato un’eredità duratura che continua a influenzare l’industria della moda di oggi e le future modelle di domani.
La sartoria Caraceni è stata fondata a Roma nel 1913 da Domenico Caraceni che rivoluziona l’abito maschile conferendogli libertà di movimento. Nel 1960, Gianni Campagna, innamoratosi del mondo della sartoria guardando i vecchi film di Hollywood, parte dalla sua terra nativa, la Sicilia, e si trasferisce a Milano. Qui, grazie al suo costante impegno e al suo speciale talento, diventa prima allievo e poi assistente nello storico atelier del maestro Domenico Caraceni, di Piazza San Babila, dove si vestivano i più grandi personaggi dell’epoca. Alla morte del suo maestro, Gianni Campagna diventa erede non solo del know-how, ma anche del brand stesso, continuandone il percorso arricchendolo di un sapore internazionale. Oggi alla guida della maison c’è Virginia Campagna che, fatto tesoro degli insegnamenti paterni, ha deciso di portare la Sartoria Domenico Caraceni a uno step successivo ampliandone prodotti e servizi, senza mai tralasciare l’importanza della tradizione, unendola e facendola convivere con l’innovazione.
Negli anni la boutique sartoriale esporta il Made in Italy nel mondo. Veste re e regine, come il Principe del Galles, il Principe Ranieri di Monaco, personaggi di rilievo come Aristotele Onassis, Stavros Niarchos, Gianni Agnelli e star del cinema internazionali quali Tyrone Power, Humphrey Bogart, Gary Cooper, Cary Grant, Sharon Stone e Pierce Brosnan.
Al mondo sartoriale si aggiunge una la fragranza tailor made rivolta al pubblico maschile e femminile, custodita in una boccetta serigrafata con stampa argento a caldo su vetro verniciato.
Petit grain, Geraniu, Bourbon e Artemisia sono le note di testa, Neroli Bigarade, Absolute Rose, Fava Tonka rappresentano il cuore dell’essenza, mentre legno di Guajaco, muschio di Quercia e Frankincense sono le note di fondo, quelle che rimangono più a lungo. È questa la piramide olfattiva di Domenico Caraceni 1913. Il profumo e il packaging sono creati in Italia, da Domenico Caraceni con Fabrizia Marinelli che da anni collabora con i più conosciuti nasi a livello internazionale e ha seguito dall’inizio la creazione della fragranza che consente di rivivere l’eleganza discreta, rigorosa e attuale dello storico brand. Per il lancio della fragranza è stato creato un video emozionale realizzato sotto la regia della direttrice artistica del brand Virginia Campagna e grazie alla collaborazione dell’Hotel Principe di Savoia, uno dei più ricercati salotti milanesi e pilastro dell’hôtellerie meneghina.
Durante la serata di presentazione della fragranza, la Sartoria Domenico Caraceni ha introdotto due importanti novità: la collezione homewear Caraceni Casa e la linea prêt-à-porter menswear Resewing Milano nata a settembre.
La prima linea Caraceni Casa comprende eleganti e morbidissimi set di cuscini e plaid realizzati a mano dai sapienti maestri Caraceni, con pregiati tessuti Made in Italy. Ogni dettaglio del prodotto, dagli occhielli ai ricami, è creato all’interno dello storico atelier nel centro di Milano. I cuscini sono personalizzabili e imbottiti a mano in pura lana vergine inglese antiallergica e rivestiti con tessuto pelle ovo. I set plaid Home with you; Wear your home, invece, sono ideati in cashmere da riporre in una sacchetta en pendant per accompagnare in viaggio o per una coccola a casa. Il plaid è double-face e impreziosito da una tasca sartoriale a due filetti che permette di riporre e custodire, anche in viaggio, gli oggetti più inseparabili.
La sapienza sartoriale che caratterizza da sempre la storia del celebre marchio è riconoscibile anche nella nuova linea prêt-à-porter maschile Resewing Milano. La collezione è un omaggio alla città di Milano, che ha visto vivere ed evolvere il brand artigianale attraverso le epoche e le figure che ne hanno raccontato la bellezza, la dinamicità e l’inconfondibile eleganza di chi la respira. La linea prêt-à-porter propone un’accurata selezione per il guardaroba maschile, declinato in tre mondi: gli Essenziali, abito monopetto e doppiopetto; il Tempo Libero, blazer formali e spostivi, le Occasioni, gli smoking e il mezzo tight. Tutti i capi sono four seasons e realizzati con i migliori tessuti, italiani e inglesi, fino a un titolo di 180s in lana, cashmere e seta, impreziositi da fodere in cupro in tinta o in contrasto, con stampe raffinate, bottoni in corozo o in metallo. La palette di colori va dai grigi, agli azzurri, dai blu al beige safari, nei patterns più iconici del marchio come il Principe di Galles, il gessato e il Solaro.
Anche la linea prêt-à-porter si distingue per le caratteristiche iconiche della sartoria: la spalla scesa, i revers accuratamente misurati e le asole interamente realizzate a mano.
Il rapporto tra arte e moda è profondo. È un insieme di scambi creativi e, in un momento storico confuso come quello che stiamo vivendo, la connessione tra Harim e YKK, nello scenario di Fiumara d’Arte, è particolarmente significativa.
Per chi non la conoscesse, Harim Accademia Euromediterranea, con sede a Catania, è per la rivista Vogue tra i migliori istituti di moda e design italiani, con una storia lunga più di 25 anni, che punta a formare nuovi professionisti in diversi ambiti lavorativi.
Mentre YKK (Yoshida Kogyo KabushikiKaisha) è una multinazionale giapponese nata nel 1934, tra le maggiori produttrici mondiali di accessori da chiusura, cioè di cerniere. L’azienda Made in Tokyo oggi è presente in 73 nazioni ed è un colosso che supera la produzione annua di 2 milioni di km di chiusure lampo.
Gli abiti sono realizzati a mano dallo staff di Harim. Satin, crêpe e chiffon. Tre tessuti e abiti differenti, ma con lo stesso bagno di colore. Comune denominatore: le cerniere.
Alla leggerezza dei tessuti hanno abbinato cerniere metalliche a catena, con inciso a laser nero su oro “Back to dreaming” (ovvero “Torniamo a sognare”), nome della capsule. “L’idea era quella di dettare i canoni dell’alta moda e dello streetwear creando un forte contrasto che mette in risalto le cerniere”, afferma Gabriella Ferrera, fondatrice di Harim e sorella della stilista Marella Ferrera. Una tradizione familiare quella delle sorelle Ferrera, nata grazie ai genitori che aprirono la loro prima boutique a Catania a fine anni ’50.
La partenrship tra Harim e YKK ha dato vita a un videoclip realizzato in occasione dell’edizione 2021 del MADEINMEDI, girato a Fiumara d’Arte, museo a cielo aperto, uno tra i più grandi parchi monumentali di arte contemporanea in Europa, voluto e ideato dal mecenate Antonio Presti. Le riprese sono state effettuate presso le sculture monumentali del parco: “Monumento per un Poeta Morto” di Tano Festa (Comune di Reitano), “Il labirinto di Arianna” di Italo Lanfredini (Comune di Castel di Lucio), “Piramide – 38° Parallelo” di Mauro Staccioli ed “Energia mediterranea” (Comune di Motta d’Affermo). Uno cambio energetico tra opere d’arte e un linguaggio contemporaneo della moda. Creative Director del video Gabriella Ferrera e Producer Marco Aloisi, suo socio nell’Accademia.
Quante volte molti di noi comprando un capo d’abbigliamento, scarpe o accessori, si domandano: “Sto acquistando realmente un prodotto Made in Italy?”
Il gusto, la manifattura, l’artigianalità, la qualità del nostro Paese sono invidiate in tutto il mondo, tanto che i brand italiani sono corteggiati e spesso anche acquisiti da società estere.
Il sentore che qualcosa nel Fashion System stia cambiando e che molte aziende siano adocchiate da realtà estere lo avvertono i buyer andando a comprare per i vari show-room e dialogando con i rappresentanti. E purtroppo in tanti casi è già vero: molte aziende non sono più italiane.
Era il 1967 quando venne fondato il brand Fiorucci, lo stilista Elio che negli anni 70-80 ebbe la sua massima popolarità. Purtroppo non tutto è destinato a durare, infatti, nel 1990, l’azienda Fiorucci venne rilevata dalla Edwin International, società giapponese che possedeva la licenza e la proprietà di diverse aziende, per poi passare alla Società inglese Schaeffer, che finora è a capo del marchio.
Ci sono fondi di investimento, come il francese Kering, un vero e proprio colosso globale del lusso che ha acquistato diverse maison tra cui il brand Gucci, fondato da Guccio Gucci nel 1921 a Firenze. Marchio di fama internazionale e un’icona della Dolce Vita che oggi, sotto la guida dello stilista Alessandro Michele, sta avendo nuovamente un enorme successo. Gli italianissimi Bottega Veneta, Pomellato, Dodo e Brioni sono passati anch’essi al gruppo Kering.
La rinomata e amata Maison Valentino nasce negli anni ’60, quando si afferma la Dolce Vita, e resta italiana fino al 2012, anno in cui il fondo di investimento Mayhoola, con sede in Qatar, acquista l’azienda.
Emilio Pucci, Loro Piana, Fendi e Bulgari sono state acquistate negli anni dal gruppo LMVH, multinazionale francese che conta oltre 70 marchi ed è quotata alla Borsa di Parigi.
Tra i casi che hanno tenuto alta l’attenzione degli italiani, c’è quello di Versace,il cui brand è stato venduto allo stilista americano Michael Kors per 2 miliardi di dollari, anche se Donatella Versace, che ha preso le redini dell’azienda dopo la morte del fratello Gianni nel 1995, ha mantenuto assieme al fratello Santo una piccola quota.
Era il 1991, in gran voga il jeans a vita bassa e Miss Sixty, leader di questa tipologia di pantalone. C’era anche Energie, balzato nell’olimpo per la vestibilità più street del jeans. Un destino comune quello delle due aziende che, insieme al marchio Roberta di Camerino, Murphy Nye e RefrigiWear®, vengono cedute nel 2012 a un fondo di investimento panasiatico.
Le aziende vendute a società estere sono tante, ma in tutto questo notiamo anche qualche azione in contro tendenza: nel 2003 l’azienda francese Moncler è stata acquistata dall’imprenditore italiano Remo Ruffini e, nel 2020 StoneIsland entra a far parte di Moncler.
Diesel, dello stilista veneto Renzo Rosso, Dolce & Gabbana, fondato nel 1985 da Domenico Dolce e Stefano Gabbana, sono altri esempi di brand nati e conservati nel nostro Paese. Poi ancora: Moschino, Max Mara, Salvatore Ferragamo, Etro e Missoni. E Prada (fondata a Milano nel 1913 dai fratelli Mario e Martino Prada con il nome Fratelli Prada, e poi negli anni gestita da Miuccia Prada e dal marito Patrizio Bertelli) è diventata una SPA, alla quale appartengono altri brand, tra cui Miu Miu, Church’s, Car Shoe, Fondazione Prada, e mantiene il domicilio in Italia. E poi c’è lui, re Giorgio (Armani), con la sua azienda fondata insieme a Sergio Galeotti nel 1975.
Una cosa è certa: venduti oppure no, i marchi del Made in Italy hanno una marcia in più.